Nomina: dare un nome a ciò che senti per riprendere il controllo
Perché nominare cambia tutto (anche se sembra banale)
Ti ci ritrovi? Quella scena classica. Qualcosa ti agita, ti scombussola. Poi arriva la domanda: “Che hai?”. E la risposta, la più inutile di sempre, esce da sola: “Boh, sto male.”
Il problema non è che non senti nulla. Il problema è che è tutto così confuso, senza confini. E senza confini, non puoi farci assolutamente niente.
La prima volta che l’ho capito, ero davanti al frigorifero. Non era fame. Non era tristezza. Era solo “qualcosa”. E finché rimaneva “qualcosa”, io ero in balia di quel “qualcosa”.
La scienza, poi, è chiara: dare un nome a un’emozione non è una magia new age. È un fatto. Attivi la parte razionale del cervello (corteccia prefrontale) che, semplicemente, abbassa il volume alla centralina dell’allarme (amigdala). Tradotto in parole povere: la mente smette di urlare e inizia a parlare.
E quando parla, puoi risponderle. Quando urla, tu reagisci. Punto.
Ed è qui che il Metodo I.R.O.N.I.A. mostra la sua ossatura semplice e diretta: la N serve proprio a questo. A trasformare quella nebulosa emotiva in un oggetto. Qualcosa che puoi osservare. Niente magia. Niente psicologia spicciola. Solo linguaggio che diventa una leva per spostare il peso.
E allora? (Il takeaway pratico)
Prenditi un minuto. Scrivi su un post-it lo stato d’animo in una parola sola. Poi guardala. Ti accorgerai che già solo così, la sua forma inizia a cambiare.
La differenza tra “ansia”, “tensione”, “imbarazzo” e “fastidio”
Uno dei nostri errori preferiti? Usare un’etichetta unica per tutto. “Ansia”. Così, qualsiasi cosa diventa una minaccia esistenziale: il messaggio non letto, il rumore dei vicini, la scadenza di una bolletta.
Me ne sono reso conto in un giorno qualsiasi: avevo scritto “ansia” per la semplice idea di dover fare una telefonata. Ma non era ansia. Era resistenza. Eppure, chiamarla “ansia” aveva innescato tutto il sistema d’allarme, per nulla.
Attenzione: cambiare parola non significa cambiare l’emozione. Cambiare parola significa cambiare la tua postura mentale verso quell’emozione.
E qui arriva la parte operativa: – Ansia: corpo in allerta, respiro corto, senso di pericolo vago. – Tensione: muscoli contratti (spalle, mascella), aspettativa per qualcosa che sta per arrivare. – Imbarazzo: sensazione di essere esposti, sotto i riflettori, e di aver sbagliato. – Fastidio: un micro-confine personale è stato oltrepassato.
Sono mondi completamente diversi. Se li confondi, la tua reazione sarà sproporzionata. Se li distingui, fai un passo indietro e ti tolgi dal centro del ciclone.
E allora? (Il takeaway pratico)
La prossima volta che senti “qualcosa”, prova a chiederti: “Sto cercando di evitare, di difendermi o di anticipare qualcosa?”. La risposta ti porterà dritto verso il nome giusto.
Come si nomina davvero un’emozione (senza diventare un manuale di psicologia)
Niente teorie astruse. La N del metodo serve a una cosa sola: trovare la parola sufficiente, non la parola perfetta.
All’inizio, la mia tentazione era catalogare tutto con precisione maniacale. Sai com’è? Era solo un modo elegante per rimuginare. È il “perfezionismo emotivo”: sembra autoconsapevolezza, ma in realtà è solo ansia con un dizionario in mano.
Il metodo concreto è questo:
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Rallenta. Bastano tre secondi. Non servono ore di meditazione.
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Ascolta il corpo. La risposta è lì. Testa pesante? Petto chiuso? Nodo allo stomaco? Il corpo restringe il campo più di qualunque manuale.
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Scegli una “famiglia emotiva”. Le poche, essenziali: paura, rabbia, tristezza, tensione, imbarazzo, gioia.
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Dai un nome plausibile. Non perfetto. Plausibile. “Sento pressione”, “Sento agitazione”, “Sento una vergogna leggera”.
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Conferma e passa oltre. Se continui a limare la parola, non stai nominando, stai facendo OCE (Overthinking Con Eleganza).
L’ho capito davvero quando mi sono accorto che cercare la parola “giusta” era un modo per non sentire veramente l’emozione.
E allora? (Il takeaway pratico)
Scegli una parola, anche se ti sembra sbagliata. È mille volte meglio un nome imperfetto che un tornado anonimo che ti travolge.
Quando nomini troppo e ti perdi peggio di prima
Sì, puoi esagerare anche con questa cosa. L’obiettivo del “naming” non è analizzare all’infinito ogni sfumatura, ma evitare che l’emozione ti porti a spasso per la testa.
Succede spesso a chi è molto riflessivo (o abituato alla ruminazione): si confonde la precisione con il controllo. Ma la precisione emotiva dovrebbe servire a ridurre la complessità, non ad aumentarla.
Lo ammetto, ci casco ancora. Quando mi ritrovo a cercare il “tipo esatto di irritazione”, so di star solo perdendo tempo e alimentando il teatrino mentale. È il momento in cui serve spostarsi dalla testa al corpo, ed è qui che la lettera O — Osserva entra in campo come una frenata d’emergenza.
Il limite è semplice da capire: – Se il nome riduce l’attivazione (il cuore batte meno forte, i muscoli si sciolgono un po’), funziona. – Se il nome aumenta l’attivazione (la mente si accende di pensieri), stai analizzando, non nominando.
E se dopo aver dato un nome ti ritrovi in un monologo interiore infinito, è un segnale chiaro: cambia passo. Vai alla O, o direttamente alla I successiva (Interrompi 4×4).
E allora? (Il takeaway pratico)
Dopo aver nominato, ascolta il corpo per due secondi. È più rilassato o più contratto? Quella sensazione ti dice tutto: se andare avanti o lasciar perdere.
La micro-azione in 20 secondi**
Chiudiamo qui la fase N. La domanda finale è: “Ok, ho questa parola. Adesso che ci faccio?”
L’azione è volutamente minuscola. Imposta un timer di 20 secondi e fai solo questo:
- Nomina una sola volta ciò che senti. (“Paura”, “Frustrazione”).
- Ripetilo mentalmente in modo neutro: “Sto provando ___.”
- Fai un respiro solo, un po’ più lento del solito.
- Sposta lo sguardo su un oggetto fisico davanti a te (un bicchiere, una penna, una mattonella).
Stop. Fine. Non devi elaborare, capire, integrare o processare. Hai già fatto il necessario: hai preso quell’emozione e l’hai resa un fenomeno da osservare, non un comando a cui obbedire.
Se vuoi entrare nel ciclo completo, qui trovi il metodo intero:
→ /mindfulness-ironica/metodo-ironia/
Link alla fase successiva: I - Interrompi
Link alla fase precedente: O - Osservare
Come nominare un’emozione in meno di 20 secondi
Un micro-protocollo realistico per usare la fase N del Metodo I.R.O.N.I.A.
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Fermati
Porta l'attenzione al respiro per 3 secondi.
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Ascolta
Nota la sensazione dominante nel corpo.
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Scegli una famiglia emotiva
Paura, rabbia, tristezza, tensione, imbarazzo.
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Dai un nome
Scegli la parola più vicina, senza perfezionismo.
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Conferma
Ripeti mentalmente: 'Sto provando ___'. Stop.
FAQ
- Perché nominare un’emozione riduce l’ansia?
- La nominazione attiva aree prefrontali che regolano l’amigdala. Tradotto: quando riconosci ciò che senti, il cervello smette di interpretarlo come una minaccia indistinta.
- E se non so che nome dare a ciò che provo?
- Parti da categorie semplici: paura, rabbia, tristezza, tensione, imbarazzo. Trova la più vicina. La precisione arriva praticando, non analizzando.
- Posso sbagliare a nominare un’emozione?
- Sì, e va bene. Lo scopo non è la perfezione. È interrompere l’automatismo reattivo.
- Nominare non rischia di farmi pensare ancora di più?
- Succede solo se trasformi il naming in analisi infinita. Dai un nome e passa oltre: la lettera O ti salva dalla ruminazione.